Iniziata il 19 ottobre scorso, ha causato l’abbattimento di 15 milioni di capi e risarcimenti per oltre mezzo miliardo di euro.

Basso rischio per l’uomo ma in considerazione «del potenziale evolutivo del virus attenzione e monitoraggio della situazione al fine di identificare eventuali cambiamenti»

308 focolai in altrettanti allevamenti di tacchini, polli e galline ovaiole, in stragrande maggioranza in Veneto e Lombardia, 15 milioni di capi abbattuti, 1800 aziende coinvolte, 500 milioni di euro di risarcimento richiesti e altrettanti che potrebbero aggiungersi alla conta dei danni da parte dell’industria avicola. Sono questi i numeri della più recente epidemia di influenza aviaria, che dal 19 ottobre sta imperversando negli allevamenti avicoli italiani, in particolare in Veneto (quasi 250 focolai), Lombardia (circa 60 focolai).

«Sono eventi che si susseguono periodicamente da alcuni anni», afferma Calogero Terregino, referente dell’Istituto zooprofilattico delle Venezie, che è il Centro di referenza nazionale ed europeo per l’influenza aviaria. «Quest’anno la precocità di ingresso ci ha un po’ colpito», ha detto Terregino. «Tutto è iniziato il 19 ottobre e purtroppo il primo caso è avvenuto nel cuore della realtà produttiva avicola dell’Italia, la provincia di Verona, in cui ci sono centinaia e centinaia di allevamenti e milioni di animali, che ovviamente hanno costituito un substrato ideale per questo virus».

L’allarme aviaria è partito il 19 ottobre in un allevamento a Ronco all’Adige, in provincia di Verona. A novembre erano alcune decine i focolai rilevati, a metà gennaio il conteggio ha raggiunto 308 focolai solo negli allevamenti, più altre positività nella fauna selvatica.

Le aziende coinvolte

«Parliamo di diverse migliaia di aziende, perché il problema dei focolai ha generato una ripercussione anche per quegli allevamenti che non erano stati colpiti», afferma Gianmichele Passarini, presidente della CIA Veneto. Secondo stime dell’industria avicola, nell’area dei 308 focolai sono state colpite circa 1800 aziende, che hanno perso o hanno dovuto abbattere preventivamente oltre 15 milioni di capi, in particolare polli, tacchini, galline ovaiole. «Di solito si fa un abbattimento preventivo», racconta Passarini, «si cerca di contenere nell’ambito della zona in cui viene individuato e circoscritto il focolaio». L’imprenditore gestisce un allevamento di tacchini tra i primi ad essere colpiti, con tutti i 20mila capi ammalati e morti nell’arco di tre giorni a novembre.

Secondo Terregino, «quello che si fa è circoscrivere l’area, si fa una zona di protezione di 3 km e una zona di sorveglianza di 10 km». «Si fanno molti abbattimenti preventivi, nel senso che se ci sono degli allevamenti potenzialmente contaminati o fortemente a rischio, ad esempio perché sono nella stessa filiera, vengono abbattuti per evitare che si creino nuovi focolai. Il concetto è creare un vuoto biologico, depopolare l’area, per evitare che il virus possa trovare terreno fertile e diffondersi e replicare ancora di più».

 
 

I costi per le aziende

La creazione di «zone di protezione» intorno ai focolai, lo svuotamento di migliaia di capannoni e il divieto di «ripopolarli» per oltre un mese ha di fatto bloccato la produzione del Veneto, principale distretto avicolo italiano con un fatturato di 2,5 miliardi di euro e una capacità produttiva di 45 milioni di capi.

Un primo sostegno da parte dello Stato per il settore è arrivato con la Legge di Bilancio, che ha stanziato a dicembre 30 milioni di euro per l’emergenza aviaria. In questi giorni l’industria sta facendo la conta dei danni ed è seduta a dei tavoli con il Ministero della Salute e con quello dell’Agricoltura, per chiedere tramite un meccanismo di sostegno europeo degli indennizzi che potrebbero raggiungere il miliardo di euro.

«La stima di danni è in corso in questo momento», racconta Marina Montedoro, presidente di Coldiretti Veneto. «Abbiamo fatto richiesta di indennizzo degli allevatori per danni diretti e per danni indiretti. I danni diretti sono quelli legati all’abbattimento dei capi, quindi alla perdita di reddito. Quelli indiretti riguardano il mancato ‘accasamento’, ovvero la procedura che ci impone, per motivi sanitari, di non ripopolare gli allevamenti per un certo periodo di tempo per evitare nuovi rischi».

Una prima conta dei danni è stata inviata a Bruxelles il 28 gennaio e ammonta a circa 500 milioni di euro, calcolati in base a delle quotazioni nazionali pubblicate sul sito dell’Ismea, che ad esempio a gennaio prevedono indennizzi agli allevatori tra i 9 e i 20 euro per ogni tacchino abbattuto, o 1,5 euro per ogni pollo. La stima finale dei «danni indiretti» è ancora in corso da parte delle associazioni di categoria, e secondo le prime indiscrezioni il totale potrebbe raggiungere il miliardo di euro.

Intanto nei giorni scorsi il Ministero della Sanità, considerato che l’ultimo focolaio in un allevamento avicolo italiano è stato rilevato il 14 gennaio, ha dato il via libera ai primi ripopolamenti negli allevamenti in prossimità delle zone di protezione a partire dall’8 febbraio.

Un problema strutturale

Negli ultimi anni l’industria avicola in Italia, Europa e nel mondo ha imparato a convivere con epidemie di aviaria frequenti, con cadenza annuale. «Questi fenomeni hanno cominciato ad avere una certa consistenza a partire dagli anni 1997-2000, anni in cui ci sono state epidemie molto grandi», ricostruisce Terregino dell’IZSVE. «Poi c’è stata una serie di epidemie di dimensioni diverse, classificate con virus a bassa patogenicità o ad alta patogenicità, con poche decine di focolai o centinaia di focolai. Quest’anno è stata un’epidemia molto grande».

Secondo Terregino l’aumento delle epidemie è legato alla presenza ormai endemica di virus nella fauna selvatica che periodicamente, con le migrazioni invernali, raggiungono zone ad alta densità di allevamenti, come quest’anno il Veneto in Italia, ma anche il sud della Francia, o aree a vocazione avicola in Polonia, Belgio, Germania, Paesi Bassi. «Purtroppo il Veneto o la Lombardia hanno queste caratteristiche: grandi concentrazioni di allevamenti e grandi aree umide, come la laguna di Venezia, il delta del Po o il lago di Garda, frequentati dagli uccelli selvatici nelle migrazioni», afferma l’esperto.

Per questo «problema strutturale», legato alla quantità e densità della produzione avicola, anche le misure di biosicurezza approntate dall’industria non riescono ad evitare le infezioni: «Abbiamo la certezza che oggi i nostri allevamenti usano tutte le accortezze e gli strumenti per limitare al massimo la possibilità che l’influenza aviaria ad alta patogenicità si sviluppi», afferma Marina Montedoro di Coldiretti. «Però è chiaro che viviamo in un sistema dove ci sono altri fattori, come gli uccelli migratori. Per questo questa problematica non sarà mai superabile, va al di là delle attività che possono fare gli allevatori e non è imputabile a comportamenti sbagliati».

Rischi per l’uomo

Sin dai primi anni 2000 l’Organizzazione mondiale della sanità ha avviato un piano per monitorare attentamente le periodiche ondate di aviaria, per evitare il rischio che i virus ad alta patogenicità, in particolare l’H5N1, protagonista dell’attuale epidemia in Italia, potessero mutare diventando una minaccia per la salute dell’uomo oltre che degli animali.

«Come centro di referenza europeo abbiamo il compito di monitorare e fare il sequenziamento del virus, come si fa per il Covid, per analizzare le caratteristiche dei virus e capire se hanno quelle mutazioni che possono favorire le trasmissioni verso l’uomo», spiega Terregino. «Attualmente sono ancora dei virus completamente aviari, hanno una componente genetica che li rende in grado di aggredire soltanto gli uccelli in maniera significativa. Ci sono stati solo sporadici casi legati a persone che vivevano a stretto contatto con gli animali».

Il caso più recente di salto di specie verso l’uomo è avvenuto in Inghilterra a inizio gennaio. Secondo Isabel Oliver, direttore scientifico del servizio sanitario del Regno Unito, «il rischio dell’aviaria per la salute pubblica è molto basso, ma sappiamo che alcuni ceppi hanno il potenziale di diffondersi agli uomini e per questo abbiamo misure di prevenzione forti, per individuare e intervenire tempestivamente».

Anche in Italia a dicembre il Ministero della Salute ha alzato l’allerta, chiedendo massima cautela a tutti gli operatori dell’industria: «Il rischio di trasmissione del virus aviario all’uomo è considerato basso ma in considerazione del potenziale evolutivo del virus, si ritiene necessario monitorare la situazione al fine di identificare eventuali cambiamenti», ha scritto in una nota il professor Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute.​

 

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