Un allevamento di suini alto dodici piani: così la Cina punta alla tecnologia e all’intensività per produrre carne a buon mercato.
Gli edifici non sembrano neanche allevamenti: sono imponenti blocchi grigi di cemento, alti fino a nove piani, che svettano uno a fianco all’altro e si stendono lunghissimi nel mezzo di quella che potrebbe sembrare una cava, un “buco” di terra rossa scavato nel cuore di una montagna.
Siamo sul monte “Yaji”, che in Cinese significa montagna sacra, a pochi chilometri a sud di Guigang, una città della regione del Guangxi Zhuang, in Cina meridionale. Quello che sorge qui è forse l’allevamento di suini più grande del mondo e di certo uno dei più “avveniristici”, dove il concetto di “intensificazione” raggiunge nuove frontiere e nuovi significati.
“In ogni piano possiamo mettere 1.270 suini, ma in futuro con il design dei nuovi edifici che stiamo costruendo potremo arrivare a 1.300 per piano”, ci spiega Yuanfei Gao, vice presidente dell’azienda Yangxiang che ha costruito l’allevamento di suini sul monte Yaji.
L’azienda è uno dei colossi cinesi nella produzione di carne suina e produce ogni anno circa 2 milioni di capi in una decina di allevamenti sparsi in tutta la Cina. Ma il sito di produzione sul monte Yaji, a pochi chilometri dalla sede di Yangxiang, è il più grande e il più avanzato, e il primo che ha puntato sul sistema di allevamento multipiano. Qui vengono allevati ogni anno circa 840 mila suini.
“Nel 2014 insieme a un’azienda canadese abbiamo costruito un primo allevamento sul monte Yaji”, ci racconta Gao. “Era diviso in tre unità con una capienza di 12 mila suini, all’epoca era il più grande in Cina. (…) Poi nel 2017 abbiamo costruito un allevamento a 4 piani, sempre sul monte Yaji. È l’allevamento più avanzato del mondo, grazie a una serie di sistemi che ne automatizzano la gestione”.
Oggi nel cuore del monte Yaji svettano anche altri due edifici di sette piani, due di nove piani e altri due in costruzione che raggiungeranno rispettivamente 10 e 12 piani. Il principale motivo per cui è nata l’idea di allevare suini in un impianto del genere è l’abbattimento del costo di produzione, di fronte a una domanda cinese di carne suina che è in perenne crescita da anni. “Costruire un allevamento multipiano di suini costa molto, ma l’efficienza di allevare in questo tipo di strutture è molto buona. Questo sistema ci permette di raggiungere una produzione low cost”, ci spiega Gao, facendo riferimento al motto di Yangxiang che campeggia a caratteri cubitali sopra la sede dell’azienda: “Sano, sicuro, gustoso, low cost”.
Secondo GAO, l’allevamento sul monte Yaji riesce a produrre con un risparmio di circa il 30 per cento rispetto ad altre aziende in Cina.
Febbre da suino
Anche se il sistema di allevamento del monte Yaji è stato immaginato per abbattere i costi di produzione, lo scorso anno questo tipo di struttura -isolata nel cuore di una montagna e al tempo stesso superintensiva- ha rivelato un altro grande vantaggio per i produttori: la difesa dalle epidemie.
Il 2019 in Cina è stato un anno profondamente segnato dai virus: non solo per il Covid-19 -apparso nei mercati di animali selvatici di Wuhan- ma anche per l’infuriare della febbre suina africana, una patologia che finora non ha minacciato direttamente l’uomo ma che ha colpito in modo durissimo gli allevamenti suini cinesi (e del mondo intero), costringendo i produttori a sopprimere milioni e milioni di capi.
“Nel 2019 c’è stato un grave calo di carne di maiale a causa della febbre suina africana”, afferma Ben Santoso, analista di Rabobank. “La Cina ha avuto un deficit di circa 30 milioni di tonnellate di carne di maiale. Questo ha avuto forti conseguenze in tutto il mercato globale, perché ha dovuto aumentare notevolmente l’importazione di carne”.
Secondo Gao, Yangxiang è riuscita a ridurre sensibilmente le perdite legate alla febbre suina grazie all’uso della tecnologia e all’isolamento degli allevamenti: “Le aziende in Cina hanno perso circa la metà dei capi. Anche in Yangxiang abbiamo avuto delle perdite, ma siamo riusciti a contenerle al 10 per cento”.
Monita Mo è a capo di un’altra azienda, Best Genetics Group, che si trova nel nord della Cina e che come Yangxiang ha scelto di costruire i propri allevamenti in cima a una montagna, in mezzo alla natura e lontano dai grandi agglomerati urbani. “Siamo molto fortunati, perché il nostro allevamento è in un luogo ideale”, afferma Mo. “Siamo in una zona molto isolata, abbiamo un clima freddo e ventoso, così i virus non possono crescere così facilmente”.
“Molti dei nostri dipendenti vengono da altri allevamenti dove hanno avuto a che fare con la febbre suina”, aggiunge l’imprenditrice. “Puoi immaginare l’impatto psicologico quando si sono trovati di fronte a così tanta morte, così tanta distruzione che ha colpito i loro amati animali. Per questo come presidente della società, mi impegno molto nel creare felicità nelle persone, in particolare nei miei dipendenti”.
Nonostante le parole dell’imprenditrice, proprio la ferrea gestione dei dipendenti è un’altra ragione per cui queste aziende hanno sofferto meno l’imperversare dell’epidemia di febbre suina. “I nuovi edifici per la quarantena dei lavoratori e per le attrezzature sono la nostra reazione alla febbre suina”, afferma Gao di Yangxiang.
In mezzo ai grandi edifici del monte Yaji, infatti, ce n’è uno un po’ diverso: leggermente più piccolo, che si distingue dagli altri perché ci sono due campi da tennis di fronte alla facciata principale. Qui, in mezzo agli allevamenti e isolati nella montagna, vivono i dipendenti dell’azienda che lavorano nelle strutture. “I lavoratori degli allevamenti hanno un giorno libero ogni due mesi”, afferma Lily Zou, portavoce del gruppo Yangxiang, mentre camminiamo davanti ad alcuni palazzi dedicati alle quarantene dei dipendenti.
“L’area quarantena per chi lavora negli allevamenti è divisa in tre parti”, ci mostra Zou. “Nella prima gli operai si registrano, indicano da dove vengono e in quale allevamento sono diretti, poi cambiano vestiti e vengono disinfettati. Vengono presi dei campioni per degli esami di laboratorio. Se i risultati sono negativi, possono entrare nell’ultima area per altri due giorni, e da lì essere trasportati con gli autobus nei vari allevamenti. Ma se i risultati sono positivi, devono aspettare altri giorni”.
In questo modo i dipendenti di Yangxiang entrano nel sito di allevamento e non escono più fino al prossimo giorno libero, due mesi dopo: “Ogni volta che vogliono entrare negli allevamenti, devono attraversare questo percorso di quarantena”, precisa Zou.
Virus, dentro e fuori
Grazie all’isolamento delle strutture e dei dipendenti, il modello superintensivo del monte Yaji sembra essere più efficace nel tenere gli animali al riparo dai virus che circolano in altri allevamenti. L’altra faccia della medaglia però è il rischio che allevamenti intensivi costruiti nel cuore di zone naturali possano favorire in modo pericoloso lo sviluppo e la diffusione di virus provenienti dalla fauna selvatica.
“Il 75 per cento delle nuove malattie infettive viene dagli animali”, si legge in un rapporto dell’Agenzia per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) del 2016. “Molte nascono nella fauna selvatica, ma spesso gli animali da allevamento fanno da ponte allo svilupparsi delle infezioni verso l’uomo”.
A giugno 2020, in piena emergenza Covid-19, molti media hanno riportato la notizia di un nuovo virus “potenzialmente pandemico” trovato negli allevamenti suini cinesi. Secondo lo studio, il virus G4 (una variante dell’H1N1, responsabile della pandemia di influenza suina nel 2009) era capace di saltare dai suini all’uomo e aveva infettato circa un lavoratore su dieci negli allevamenti cinesi. “Questo tipo di varietà nasce regolarmente nei suini e non è raro che faccia il salto verso gli uomini”, ha commentato Arjan Stegeman dell’Università di Utrecht al giornale di settore Boerderij. “Per diventare pandemico, però, il virus deve essere anche efficiente nel diffondersi tra gli uomini, e in questo caso non lo era”.
Intanto il modello di allevamento del monte Yaji sta facendo scuola. In Cina sono in costruzione altri allevamenti suini multipiano, tra cui due nella provincia meridionale di Fujian e uno nei pressi di Shangai. Altri progetti sono stati realizzati o sono in fase di costruzione in altri Paesi in Asia, anch’essi colpiti dalla febbre suina africana.
Il Vietnam ad esempio nel 2019 ha dovuto sopprimere 7,1 milioni di suini e un milione di scrofe. Questa circostanza, secondo Ben Santoso di Rabobank, sta favorendo anche qui l’intensificazione: “Hanno bisogno di allevamenti più grandi perché è uno strumento per contenere i virus che possono entrare nell’allevamento. Questo sarà il trend d’ora in poi: crediamo che i grandi allevamenti avranno sempre più quote di mercato, quantomeno in Vietnam per produrre carne di maiale”.