Se tutti i settori riducessero le emissioni mentre l’industria della carne e dei suoi derivati seguisse le attuali proiezioni di crescita, gli allevamenti arriverebbero a pesare per l’80 per cento di tutte le emissioni”.

Anche se azzerassimo di colpo tutte le emissioni legate ai combustibili fossili, se non cambiamo il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo siamo condannati a fallire gli obiettivi dell’accordo di Parigi contro il riscaldamento globale, secondo le analisi di una ricerca pubblicata sulla rivista Science e rimbalzata negli ultimi giorni sulle pagine di alcuni media internazionali.

“Ridurre le emissioni dei combustibili fossili è necessario per centrare gli obiettivi di Parigi, ma non è sufficiente”, scrivono gli autori dello studio, un gruppo di ricercatori delle università di Oxford, Stanford, Minnesota e California. “Nello studio dimostriamo che se anche le emissioni legate ai combustibili fossili fossero azzerate di colpo, l’attuale sviluppo del sistema alimentare globale ci impedirebbe di centrare gli obiettivi”.

Secondo la ricerca, tra il 2012 e il 2017 l’industria alimentare globale ha prodotto circa 16 miliardi di tonnellate di CO2. Ma l’impatto dell’attuale sistema continua a crescere di anno in anno, tanto che i ricercatori stimano che -senza un cambio di rotta repentino- il settore alimentare da solo impedirà di raggiungere gli obiettivi di Parigi, ovvero contenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi entro il 2060 e a 2 gradi entro la fine del secolo.

“Se parliamo di clima, il sistema alimentare globale è responsabile del 30 per cento delle emissioni di gas serra. Non molte persone sembrano essere consapevoli di questo problema”, ci racconta al telefono Michael Clark, coordinatore dello studio. “Il tempo è un fattore molto importante”, aggiunge Clark. “Avremmo dovuto innescare un cambiamento 20 anni fa, ma visto che non l’abbiamo fatto, dobbiamo iniziare oggi”.

Perché il cibo inquina tanto?

Lo studio di Science valuta l’impatto del sistema alimentare analizzando diverse diete e sistemi di produzione e considerando l’impatto dello spreco alimentare.”Ognuno deve giocare un ruolo per una transizione a un sistema sostenibile, i consumatori, i politici, le multinazionali, gli agricoltori e così via”, afferma Clark. Per quanto riguarda i consumatori, lo studio sottolinea l’impatto delle diete che fanno maggiore ricorso alla carne e ai derivati, e sostiene la necessità di un passaggio a diete più ricche di proteine vegetali: “Solo la produzione legata agli animali di grossa taglia come i bovini è responsabile del 14 per cento delle emissioni globali di gas serra. Se confronti questo dato con la quantità di calorie prodotte, è davvero troppo”, commenta Clark.

Lo studio chiama in causa anche altri fattori di emissioni: la deforestazione legata alla creazione di nuove superfici agricole, in particolare monocolture come soia e palma da olio, che prendono il posto delle foreste tropicali in diverse aree del mondo; poi un altro capitolo spesso sottovalutato, il consumo massivo di fertilizzanti per l’agricoltura industriale; infine, lo spreco alimentare, che -sostiene Clark- riguarda circa un terzo del cibo prodotto nel mondo.

Perché solo combustibili fossili?

Ci sono motivi storici per cui il dibattito sul clima negli anni si è concentrato sui combustibili fossili, spesso trascurando il ruolo della produzione alimentare. “Dieci anni fa in molti, tra cui la FAO, sottostimavano il ruolo dell’industria alimentare, sostenendo che pesasse per il 14, massimo il 18 per cento delle emissioni globali”, ricostruisce Henk Hobbelink, fondatore di Grain, una Ong spagnola che da anni produce pubblicazioni per richiamare l’attenzione sul peso delle emissioni legate all’industria del cibo. “Il motivo è che all’epoca non veniva valutata l’industria alimentare nel suo complesso, considerando la deforestazione, l’agricoltura, l’impoverimento dei suoli, il trasporto, le varie fasi di trasformazione”. Secondo Hobbelink: “Con il passare degli anni sempre più stime hanno considerato l’intero ciclo, aumentando il peso dell’industria alimentare sulla crisi climatica, che oggi si valuta intorno al 37 per cento”.

In una ricerca del 2018 Grain ha raggiunto conclusioni simili a quelle dello studio pubblicato su Science: “Entro il 2050 dovremo ridurre le emissioni di 38 miliardi di tonnellate per limitare il riscaldamento globale a 1.5 gradi Celsius”, si legge nella nota introduttiva. “Ma se tutti i settori riducono le emissioni mentre l’industria della carne e dei derivati segue le attuali proiezioni di crescita, gli allevamenti arriveranno a pesare per l’80 per cento di tutte le emissioni”.

“Le cinque maggiori aziende che producono carne e derivati producono insieme più emissioni di Esso, Shell o Bp, ma in genere le persone non conoscono neanche i loro nomi”, afferma Hobbelink. “Intanto, se leggiamo i documenti di programmazione di queste aziende, tutte puntano ad aumentare la produzione di carne e derivati a livello globale: ovviamente non sono interessati a ridurre i mercati o le proprie vendite”.

Il sistema alimentare sta cambiando?

Secondo Hobbelink “nell’ultimo anno molte aziende come Cargill, Unilever, o anche le aziende che producono fertilizzanti, hanno detto di voler raggiungere emissioni zero entro il 2030 o il 2050, ma il più delle volte non intendono ridurre le emissioni che provocano ma trovare forme di compensazione, ad esempio piantando alberi”.

In Europa il Green Deal affronta il problema della sostenibilità dell’industria alimentare, in particolare con la strategia Farm to Fork, che sulla carta dovrebbe favorire la transizione verso sistemi alimentari più locali e sostenibili. Intanto però nelle scorse settimane i principali movimenti ambientalisti –compresa Greta Thunberg – sono insorti contro il Parlamento Europeo, che ha approvato la nuova Politica agricola comunitaria (Pac – il sistema di finanziamento europeo ai produttori agricoli), che rischia seriamente rendere un miraggio questi obiettivi. “La nuova Pac è rimasta in continuità con quella in vigore fino ad oggi”, afferma Federica Ferrario, responsabile agricoltura sostenibile per Greenpeace Italia. “Il grosso dei finanziamenti viene dato ai produttori indipendentemente dal tipo di agricoltura o di allevamento che fanno: vengono erogati contributi in base al numero di ettari che si coltivano o di animali che si allevano, disincentivando gli sforzi dei produttori più piccoli e sostenibili”.

Ma l’evoluzione più preoccupante del sistema alimentare globale riguarda la Cina, dove la domanda di carne e derivati cresce rapidamente da alcuni anni, di pari passo con la crescita della ricchezza della popolazione. Il 22 settembre il presidente Cinese Xi Jinping ha annunciato all’assemblea dell’Onu che la Cina diventerà “a emissioni zero” entro il 2060. Il governo Cinese, però, all’inizio del 2020 ha autorizzato la costruzione di nuovi 20mila allevamenti suini nel Paese, in gradi di produrre ulteriori 150 milioni di capi, e ogni anno aumenta a dismisura la sua domanda di soia e materie prime alimentari dal Sud America.

 

Leggi l’articolo originale su:

 

One Earth è un progetto di informazione indipendente, basato anche sul sostegno dei lettori. Aiutaci a raccontare questa storia con un contributo!