L’aumento del consumo e della produzione di carne in Cina sta creando una pressione insostenibile sulle foreste tropicali e sui prezzi dei generi alimentari su tutto il mondo.
“Sorriso” è il nome di una cittadina nel cuore del Brasile, nello Stato del Mato Grosso. La città conta poco più di 90mila abitanti e sorge nel bel mezzo del Cerrado, la più grande savana del Sud America: una distesa di vegetazione che nasconde una delle principali riserve di biodiversità del pianeta. Ma di savana e biodiversità a Sorriso è rimasto ben poco: intorno alla cittadina si estendono oltre 600 mila ettari di campi coltivati a soia, che ogni anno producono 2,2 milioni di tonnellate di soia, un record tra le città del Brasile. Ma la cosa più sorprendente, a guardare questo luogo remoto e isolato del Sud America, è che -secondo le analisi del programma Trase– la maggior parte di questa soia (il 60 per cento, ovvero 1,3 milioni di tonnellate l’anno) parte da qui per un viaggio di migliaia di chilometri che attraversa mezzo pianeta fino a raggiungere i porti della Cina.
“Se guardiamo ai mercati vediamo che negli ultimi anni c’è stata una vera e propria impennata del dominio della Cina”, afferma Toby Gardner, ricercatore dello Stockholm Environment Institute e analista di Trase, un progetto no profit che pubblica dati molto dettagliati sul commercio delle materie prime legate alla deforestazione. “Se fino a 15 anni fa l’Europa dominava le importazioni della soia brasiliana, quello che vediamo negli ultimi anni è che la Cina ha fatto un balzo in avanti, superando di molto le importazioni UE e anche il mercato interno brasiliano”.
Nel rapporto Trase è possibile ricostruire dove finisce la soia prodotta nelle varie città dove si concentra la produzione brasiliana, alcune in Amazzonia, altre nel Cerrado. Scorrendo l’elenco, il dominio delle importazioni della Cina è netto e costante, proprio come nel caso di Sorriso. Da Sao Desiderio, nello stato di Bahia, la Cina importa il 56 per cento delle 1,5 milioni di tonnellate di soia prodotte; da Nova Mutum, in Mato Grosso, la Cina importa il 27 per cento delle 1,3 mln di tonnellate di soia; da Nova Ubirata, sempre in Mato Grosso ma nell’area amazzonica, la Cina importa il 45 per cento delle 1,2 milioni di tonnellate di soia prodotte. L’elenco potrebbe continuare a lungo: nel 2018 la Cina ha importato complessivamente 68 milioni di tonnellate di soia dal Brasile, surclassando il mercato interno brasiliano (18 milioni di tonnellate) e le importazioni in Europa (13 milioni di tonnellate). “E questo trend di crescita sta continuando anche negli ultimi anni”, afferma Gardner, mostrando l’impennata dei grafici.
Pollo alla cantonese
La voracità della domanda di soia cinese è direttamente collegata all’aumento vertiginoso del consumo di carne del gigante asiatico. “Con una crescita economica di circa il 6,1 percento l’anno e una popolazione di 1,4 miliardi di abitanti, la Cina è ancora protagonista di grandi trasformazioni, anche nel settore alimentare”, ricostruisce Agne Blazyte sulla piattaforma di analisi dati Statista. “Mentre un numero sempre maggiore di Cinesi entra nella classe media, la carne sta diventando una componente centrale della dieta cinese e quindi del settore alimentare”.
Secondo i dati FAO, la produzione di carne in Cina ha già raggiunto livelli impressionanti: 441 milioni di suini allevati (contro 190 milioni allevati in Europa e 74 milioni negli Stati Uniti, dati 2018) e 13,9 miliardi di polli macellati. Questi numeri crescono di pari passo con il consumo pro capite di carne, che in Cina è passato da 44 kg l’anno nel 2010 a 60,5 kg l’anno nel 2018, e che ha ancora ampi margini di crescita per raggiungere il consumo medio Italiano (80,9 kg l’anno nel 2017), o -peggio- quello di un cittadino medio negli Stati Uniti, 124,1 kg l’anno, il doppio rispetto al dato attuale cinese. “La Cina ha una lunga storia di consumo e produzione zootecnica (in particolare suini, agnelli, manzo e avicoli), ma la carne non è sempre stata accessibile per tutti. Un tempo era un bene di lusso, oggi fa parte ogni giorno del menu di molti cinesi”, ricostruisce Blazyte.
Il passaggio tra aumento del consumo di carne e maggiore richiesta di cereali e semi oleosi per produrre mangimi -in particolare la soia- è immediato. “Abbiamo iniziato a lavorare nel 1995, ma all’epoca ci occupavamo soltanto di produrre mangimi”, ci racconta Yuanfei Gao, vicepresidente del gruppo Yangxiang, colosso della produzione di carne di maiale in Cina. Incontriamo Gao nel quartier generale dell’azienda, nella regione autonoma di Guangxi Zhuang, in Cina meridionale. “Oggi riforniamo i nostri allevamenti con i mangimi di nostra produzione. Abbiamo importato dalla Svizzera macchinari e tecnologie per la lavorazione dei mangimi e abbiamo messo a punto un sistema che ci permette di produrre fino a tre tonnellate di mangimi l’ora”, afferma l’imprenditore.
Nonostante l’epidemia di peste suina africana abbia dimezzato le produzioni degli allevamenti cinesi nel 2019, lo scorso anno l’azienda Yangxiang ha prodotto oltre 2 milioni di suini. Un numero impressionante, ma non se confrontato con le cifre delle altre aziende in Cina. Il principale produttore cinese di carne di maiale, Wens Foodstuffs Group, nel 2019 ha prodotto 18,5 milioni di suini e ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters di avere in cantiere un aumento della produzione a 56 milioni di suini entro il 2024. Nella prima metà del 2020 il governo cinese ha autorizzato e incentivato la costruzione di 20mila nuovi allevamenti suini nel Paese, con una capacità complessiva di altri 150 milioni di capi. Come se non bastasse, ad agosto 2020 il gigante asiatico ha stretto un accordo con l’Argentina: 3,8 miliardi di dollari di investimenti per raddoppiare la produzione di suini nel Paese sudamericano e rifornire il mercato cinese di altre 882 mila tonnellate di carne l’anno.
I conquistatori del Sud America
Lo scorso 22 settembre in un discorso alle Nazioni Unite il presidente Cinese Xi Jinping ha annunciato per la prima volta un impegno a lungo termine della Cina sul clima, dichiarando che il Paese raggiungerà la “neutralità” delle emissioni entro il 2060. “Puntiamo a raggiungere il picco di emissioni prima del 2030, e poi di ottenere la neutralità entro il 2060”, ha promesso il presidente cinese all’Onu.
Molti hanno salutato con favore l’impegno preso dalla Cina, che in quei giorni era sotto i riflettori del mondo per la controversa gestione della pandemia Covid19. Secondo i dati del Global Carbon Project (relativi al 2018), la Cina è responsabile del 28 per cento delle emissioni globali di gas serra, più di Europa e Stati Uniti insieme (rispettivamente 9 e 15 per cento). “L’uomo non può più permettersi di ignorare i continui segnali di allarme della natura e proseguire sulla strada dell’estrazione delle risorse senza investire in conservazione, puntare sullo sviluppo senza proteggere la natura, sfruttare le risorse senza provvedere ai danni”, ha detto il presidente Xi all’assemblea Onu.
Proprio sul fronte dell’accaparramento delle risorse, però, l’azione della Cina va in direzione opposta. A novembre 2019 esponenti del governo Cinese sono volati a Brasilia per stringere un accordo con il governo di Jair Bolsonaro, promettendo 100 miliardi di dollari di investimenti destinati soprattutto alle infrastrutture per il trasporto delle materie prime. Il piano di investimenti è l’ultimo passo di un lungo percorso, che da anni vede la Cina coinvolta in progetti di sviluppo di strade, ferrovie, porti e altre infrastrutture in Brasile e altre parti del Sudamerica, per costruire anche qui la “Nuova via della seta” (Belt and road initiative). Secondo il rapporto 2016 sugli investimenti cinesi in Brasile, a cura del China-Brazil Business Council: “La Cina ha il capitale necessario per portare a compimento progetti di infrastrutture che sono in linea con gli interessi del gigante asiatico nella regione, rendendo più agevole l’uscita dei principali prodotti che il Brasile esporta, come la soia e i minerali”.
Chi paga il conto
Se gli acquisti cinesi di soia brasiliana aumentano a dismisura di anno in anno, chi ci guadagna (per ora) è l’economia brasiliana. Per questo il presidente Bolsonaro, che durante la campagna elettorale del 2018 aveva definito la Cina “un predatore”, oggi è ben felice di fare affari con il governo di Pechino. Ma le risorse -in questo caso la soia- sono limitate e se c’è uno sfruttamento eccessivo, qualcuno deve pagarne il prezzo.
L’aumento della produzione brasiliana di soia va di pari passo con la deforestazione rampante di aree critiche del pianeta, come l’Amazzonia e il Cerrado, che a sua volta è una delle principali ragioni del riscaldamento globale. “Secondo le nostre stime solo nel 2019 circa 100mila ettari di Cerrado sono stati deforestati per realizzare nuovi campi di soia”, ricostruisce Toby Gardner di Trase. “La deforestazione direttamente imputabile alla soia è concentrata nel Cerrado. Storicamente c’è stata grande espansione di soia in Argentina, nel Chaco e anche nella foresta Atlantica in Paraguay. Ma al momento la principale area di espansione è il Cerrado”, ha detto Gardner. Non è un caso che nel 2019 il Brasile abbia superato gli Stati Uniti come massimo produttore di soia al mondo e nello stesso anno l’Amazzonia abbia registrato un tasso record di incendi e aree deforestate. “Le colture di soia prendono il posto dei pascoli, che di conseguenza si espandono in aree vergini della foresta”, ha detto Gardner, spiegando in che modo la soia contribuisca a mandare in fumo il principale polmone del Pianeta.
Intanto la corsa cinese alle materie prime produce effetti sempre più evidenti e ricorrenti sull’approvvigionamento degli altri Paesi e quindi sul costo dei prodotti alimentari in altre parti del mondo, Italia compresa. “I Brasiliani non hanno mai esportato così tanto in Cina e non hanno mai avuto prezzi così alti”, afferma Enrico Zavaglia, trader di semi oleosi per l’azienda italiana CerealDocks. Nella prima metà del 2020 i prezzi della soia e di altre materie prime sono saliti molto, per la paura dell’industria agroalimentare che la pandemia creasse problemi di approvvigionamento: come i consumatori a marzo hanno fatto scorte al supermercato di farina e beni essenziali, così l’industria ha fatto scorte di cereali, semi oleosi, mangimi, facendo inevitabilmente salire i prezzi. Oggi sta prendendo forma uno scenario simile, anche e soprattutto per effetto della smisurata domanda cinese: “La Cina negli ultimi due o tre mesi ha comprato il doppio di quello che comprava abitualmente, sta ricostituendo scorte, ha una domanda esagerata di semi in Brasile e negli Stati Uniti, dove sta anche caricando mais più del previsto”, afferma Zavaglia. Solo a Ottobre, secondo le autorità Cinesi, il Paese ha importato 8,7 milioni di tonnellate di soia, in aumento del 41 per cento rispetto al 2019. “Tutto questo ha fatto ripartire i prezzi”, continua Zavaglia. “Oggi la nuova ondata di Coronavirus si inserisce in un momento in cui i prezzi sono saliti molto e qualcuno comincia a dire: adesso come faremo con i prezzi così alti? Ce la faremo?”.
Il primo campanello di allarme in Italia arriva dal mondo dei produttori di mangimi per l’industria zootecnica: “Le principali materie prime agricole per l’industria mangimistica, ovvero soia e cereali, hanno fatto registrare decisi aumenti dei prezzi, cresciuti, come nel caso della soia, di quasi il 30 per cento in poche settimane”, denuncia l’Associazione Nazionale di Produttori di Alimenti zootecnici (Assalzoo). Secondo il presidente Marcello Veronesi, questi aumenti potrebbero finire per riversarsi sui consumi: “Queste oscillazioni sono una minaccia per la catena di valore perché impediscono la corretta gestione dei flussi produttivi con conseguenze sui consumi in un periodo già complicato dagli effetti della pandemia”, ha detto.
L’aumento dei prezzi delle materie prime oggi è strettamente legato allo scenario della pandemia, ma rivela un problema di competizione per le risorse alimentari destinato a crescere nei prossimi anni, di pari passo con l’inarrestabile domanda cinese. Tutto questo in uno scenario globale dove, secondo la FAO, almeno 20 Paesi al mondo si trovano già oggi di fronte al rischio di “estrema insicurezza alimentare” per gli effetti combinati di vari fattori, tra cui la pandemia, i cambiamenti climatici e l’aumento dei prezzi delle risorse alimentari.
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